Le sfide della transizione elettrica per l’automotive europeo

Jan 20, 2023

L’obiettivo della Ue entro il 2035 comporta per il settore una trasformazione economicamente sostenibile. È praticabile?

Di Federico Piazza

 

Secondo l’Acea Position Paper di novembre 2021, l’industria automobilistica dell’area Ue impiega direttamente e indirettamente 12,6 milioni di addetti (6,6% dei posti di lavoro e 8% del Pil), genera un surplus commerciale di 76,3 miliardi di euro, investe 62 miliardi di euro l’anno in R&S (33% del totale Ue). Mentre la tassazione in ambito veicoli motorizzati porta a introiti annuali di 398,4 miliardi di euro l’anno per gli Stati.

In un settore così cruciale per l’economia del continente, l’Ue prevede per il 2035 lo stop alla vendita di autoveicoli con motori a benzina e diesel. E gli investimenti in corso delle case automobilistiche indicano come la trasformazione dell’automotive stia andando principalmente nella direzione dell’elettrico. Cioè uno sconvolgimento del settore, perché la mobilità elettrica necessita di grandissimi investimenti in tecnologie dominate dalla Cina sul lato batterie e relative materie prime, e da Taiwan sul lato elettronica.

Senza contare i dubbi sull’effettivo contributo positivo alla riduzione globale di emissioni di CO2, visto che il trasporto stradale (dati Parlamento Europeo) è responsabile del 20% del totale emissioni nell’Ue, che a sua volta nel 2021 ha prodotto solo poco più del 6% del totale mondiale. Insomma, uno sforzo immane sui trasporti stradali in Europa per ridurre un’incidenza effettiva che non supera l’1% di tutte le emissioni di CO2 del pianeta.
Ma visto che l’impegno verso l’elettrificazione è evidente, quali saranno gli effetti di questa trasformazione tecnologica sulle filiere della componentistica auto italiane ed europee? Il dibattito su fattibilità e sostenibilità economica è attualissimo.

 

Le aree di investimento

L’Europa deve dotarsi di decine di milioni di infrastrutture di ricarica elettrica, pubbliche e private.
Occorre sviluppare ambiziosi progetti industriali per una filiera integrata sull’intero ciclo di vita delle batterie sino al riciclo cruciale per il recupero dei preziosi materiali. Per ridurre la dipendenza dalla Cina su materie prime, tecnologia e capacità industriale, non bastano le giga factory per l’assemblaggio di batterie. Ma serve anche produrre grandi volumi di celle agli ioni di litio, o con altre tecnologie.

E ovviamente, per ridurre la dipendenza dalle importazioni nella corsa alle materie prime critiche che hanno un tasso di estrazione inferiore a quello di utilizzo (Eu’s list of CRMs — Critical Raw Materials), è necessario accelerare nell’individuazione e sfruttamento di giacimenti minerari di litio e di altri elementi. Metalli con prezzi previsti in aumento nei prossimi anni per la crescente domanda indotta dalla transizione energetica, necessari per le batterie, i motori elettrici brushless, i componenti elettronici. Per esempio, spiega la società di consulenza industriale Commodity Evolution, in una batteria agli ioni di litio con una potenza di 60 KWh dal peso di 185 kg la grafite pesa per il 28%, l’alluminio per il 19%, il nichel per il 15%, rame e acciaio per circa l’11%, il manganese per il 4%, il litio per il 3%, e così via.

Le case automobilistiche stanno affrontando investimenti molto rilevanti per il passaggio da piattaforme e componenti powertrain, telaistica, freni, sistemi di controllo e sicurezza concepiti per veicoli a motorizzazione endotermica alla logica dell’auto-computer elettrica, dominata dall’elettronica. Quindi anche sui motori elettrici e l’elettronica occorre accelerare l’innovazione e assicurare adeguati volumi di produzione.

La questione è che tutto questo, se l’Europa vuole vincere la sfida della transizione elettrica della mobilità che si è auto imposta, dovrebbe avvenire a costi sostenibili anche per il mass-market e in pochi anni.

 

Federmeccanica

L’abbandono o il ridimensionamento rapido di tecnologie in cui in Italia e in Europa erano state costruite eccellenze industriali comporta il rischio per molte aziende di non riuscire ad agganciare il trend. «La parola fondamentale è consapevolezza», commenta Corrado La Forgia, vicepresidente di Federmeccanica con delega alla transizione tecnologica ed ecologica. «Bisogna avere bene in mente le cose che si possono realmente fare, pur fissando obiettivi ambiziosi: l’Unione Europea ha fissato non solo i target ma anche il mezzo con cui raggiungerli, cioè l’elettrificazione che richiede investimenti enormi, sia nello sviluppo dei sistemi di propulsione, sia nella rete infrastrutturale.

Tutto ciò significa necessariamente costi e prezzi alti, limitando quindi una diffusione di massa. Federmeccanica non a caso continua a parlare di “neutralità tecnologica”, perché ci sono molti metodi innovativi, come i carburanti biosintetici e l’H2 verde, che possono assicurare ottimi risultati con impatti assai inferiori sulle catene di fornitura e, quindi, sull’aspetto occupazionale. La stessa consapevolezza – prosegue La Forgia – si rende necessaria anche nei tempi di sviluppo e nell’attuazione di idee e soluzioni tecnologiche. Siamo convinti che se si continua con l’approccio ideologico vivremo di compromessi che porteranno, magari, a tante auto ibride, perché non ci sono le strutture di ricarica e l’energia elettrica verrà prodotta ancora, in larga parte, da combustibili fossili. E questo è, onestamente, poco lungimirante».

Il mercato europeo

Oggi i BEV (Battery Electric Vehicle) sono solo l’1,5% del parco auto totale europeo (326 milioni), ma secondo stime di EY (ex Ernst & Young) aumenteranno a 65 milioni entro il 2030 e a 130 milioni per il 2035. Nel frattempo, in un mercato continentale in contrazione da anni, le vendite di veicoli totalmente elettrici (BEV) e ibridi plug-in (PHEV) crescono. Così è stato nella maggior parte dei paesi europei anche nel 2022, ma non in Italia. Dove Anfia ha infatti registrato nel 2022 un calo sul 2021 delle nuove immatricolazioni di BEV del 26,9% (quota di mercato scesa dal 4,6% al 3,7%). E anche le PHEV, giù dell’8,1%, non hanno fatto molto meglio del dato complessivo nazionale (-9,7% rispetto al 2021, poco più di 1,3 milioni di auto nuove). Tra i grandi mercati europei le quote più elevate di vendite di auto elettriche nuove si sono registrate nel 2021 in Francia (13%) e in Germania e Regno Unito (oltre il 15%).

 

L’allarme delle case automobilistiche (la voce di Stellantis)

Sulla tenuta del mercato dell’auto continentale e dei suoi livelli di produzione si è recentemente espresso in un’intervista a Repubblica il Ceo di Stellantis, Carlo Tavares, che non ha nascosto i timori. Anche, e soprattutto, per i BEV. Motivo: i costi di produzione delle auto elettriche, mediamente più alti del 40% rispetto ai pari modello endotermici. Con ripercussioni negative sulle prospettive di vendita e quindi sui volumi produttivi e occupazionali dell’intero settore europeo.

A meno che non ci siano massicci incentivi pubblici all’acquisto, poco compatibili però con le finanze di molti Stati europei tra cui l’Italia, il prezzo di vendita per un BEV continuerà a rimanere stabilmente sopra i 20mila euro anche per i modelli più economici. Insomma, i marchi automobilistici che hanno sempre avuto un’offerta soprattutto mass-market non sarebbero in grado di produrre auto elettriche per la classe media. E tanto meno per i loro operai. Questione non da poco, visto che marchi come Fiat, Citroen e Peugeot (tanto per rimanere in ambito Stellantis) hanno storicamente costruito le proprie fortune producendo, orgogliosamente, innanzitutto autovetture che venivano vendute a prezzi accessibili a qualsiasi loro dipendente.

 

Lo studio italiano in contro tendenza

Secondo varie analisi, nei prossimi 15 anni la transizione elettrica farà perdere tra i 50mila e i 120mila posti di lavoro nell’automotive italiano. Ma una prospettiva opposta, secondo cui i posti di lavoro complessivi possono invece aumentare del 6% entro il 2030, arriva da uno studio del CAMI (Center for Automotive and Mobility Innovation) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e dell’associazione Motus‑E per la promozione della mobilità elettrica.

Il “Rapporto sulle trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano”, presentato a dicembre 2022, si accompagna alla nascita del relativo Osservatorio con sede a Ca’ Foscari a supporto di ricerca, aziende e policy maker. La mappatura dettagliata dell’offerta produttiva di 2400 aziende italiane fornitrici di componenti a livello nazionale e internazionale che impiegano 280mila addetti, di cui il 60% circa con meno di 50 dipendenti, mostra che quelle ad alto rischio che fanno solo prodotti per veicoli a motori endotermici occupano non più di 14mila persone. Di cui la metà in Piemonte. Regione dove assieme alla Lombardia si concentra il 70% del fatturato più a rischio.

In sintesi, il rapporto CAMI — Motus‑E prevede che, in costanza delle variabili di mercato attuali, il calo entro il 2030 del 42% degli occupati nella produzione esclusiva di componenti per l’endotermico sia più che compensata da un aumento del 10% di quelli impegnati su componenti compatibili o esclusivi per veicoli elettrici. Senza contare un ulteriore impulso occupazionale che verrà dallo sviluppo in infrastrutture ed energia. Scenario basato su una quota di produzione europea di BEV del 59%.

 

I costi degli investimenti e della produzione BEV

L’impatto dei costi della rivoluzione tecnologica elettrica sui conti delle case automobilistiche lo spiega il professor Flavio Tonelli dell’Università di Genova, esperto di ingegneria per la sostenibilità industriale: «Si tratta di una discontinuità a gradino che comporta grandi investimenti iniziali da ammortizzare. Di prodotto, cioè le piattaforme dei veicoli da riprogettare non solo come powertrain ma anche come telaistica, sistemi di sicurezza e impianti frenanti, secondo le particolari caratteristiche dei veicoli elettrici. E di asset produttivi, in termini di nuovi macchinari e impianti per linee produttive completamente diverse. A cui si aggiunge il costo della batteria, che oggi incide per un quinto del prezzo finale di un’auto elettrica.

Dipendiamo dai cinesi per tecnologia e capacità produttiva e non abbiamo in Europa le materie prime, così come del resto neppure abbiamo quelle per i magneti permanenti dei motori elettrici brushless. E in prospettiva non ne avremo ancora per anni, anche se iniziassimo a sfruttare i giacimenti che si sono individuati nel continente, ultimo quello svedese annunciato la settimana scorsa. Infine l’elettronica – conclude Tonelli – visto che le auto elettriche sono di fatto dei computer dotati di quattro ruote, dove invece dipendiamo da Taiwan e Singapore. La scadenza secca del 2035 per la transizione elettrica dell’automotive europeo è troppo ravvicinata, perché per essere indipendenti dovremmo avere sufficienti impianti produttivi pronti già nel 2030».

 

 

 

 

 

 

 

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