Serve un revamping dei piccoli altoforni per produrre 5 milioni di piani con preriduttore DRI, forni ad arco sommerso e cattura della CO2
Di Federico Piazza
L’Italia e l’Europa non possono rimanere completamente senza produzione di acciaio da altoforno. Ben venga la progressiva transizione verso l’elettrosiderurgia nella direzione degli obiettivi di decarbonizzazione del settore, su cui l’Italia ha il primato con oltre l’80% della produzione nazionale di acciaio da forni elettrici. Ma per alcune tipologie di acciaio necessarie per l’industria manifatturiera, come per esempio quello da stampaggio profondo utilizzato nell’automotive, servono ancora gli altoforni.
Lo ha detto chiaramente Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e del gruppo Duferco, nel suo intervento al webinar Mercato & Dintorni della community italiana dell’acciaio Siderweb del 16 gennaio 2024.
Pertanto, secondo Gozzi, l’ex Ilva di Taranto andrebbe rilanciata per tornare almeno a una produzione di almeno 5 milioni di tonnellate di piani di acciaio decarbonizzato mantenendo attivi fino al 2029 i piccoli altiforni. Le tecnologie su cui investire per il revamping dovrebbe essere un preriduttore con captazione di emissioni e due forni ad arco sommerso utilizzanti preridotto DRI per produrre ghisa.
È infatti fondamentale intervenire in logica decarbonizzazione, oltre che in logica ambientalizzazione come è stato fatto sinora. Perché altrimenti, a causa dei costi previsti dalle regole Ue sempre più stringenti sulle emissioni carboniche, quella che era la più grande acciaieria d’Europa è destinata a finire definitivamente fuori mercato. «Un impianto a ciclo integrale mediamente emette 2 tonnellate di CO2 per ogni tonnellata di acciaio prodotta.
Il che vuol dire – ha spiegato Gozzi – che al 2029, senza cambi di tecnologia, l’impianto di Taranto dovrà pagare ogni anno, per una produzione in break-even a 6 milioni di tonnellate, circa 1,2 miliardi di euro. Vuol dire che l’impianto dovrebbe chiudere per mancanza di competitività. Ma non solo l’impianto di Taranto, tutti gli altiforni europei hanno lo stesso problema. Questo, se non ci saranno modifiche, imporrà che l’Europa, per una scelta miope, creerà una nuova dipendenza estera per un prodotto strategico. Penso in particolare all’acciaio da stampaggio profondo, essenziale per l’industria automotive».
Stato e privati devono fare la propria parte per rilanciare l’ex Ilva. Lo Stato in particolare deve operare in una logica di impulso keynesiano in una fase di rallentamento economico per mantenere strategicamente in Italia una base adeguata di produzione di acciaio primario da altoforno, così come stanno facendo lo Stato francese e lo Stato tedesco in impianti considerati cruciali per il tessuto industriale. Nella prima fase, secondo Gozzi, il modello di governance dovrebbe ispirarsi a quello dell’operazione Fiat-Chrysler reso possibile dall’amministrazione americana di Barack Obama tra il 2009 e il 2011.
Ma i privati (in particolare il più papabile a intervenire è il Gruppo Arvedi), per approntare un piano industriale di medio-lungo termine, hanno innanzitutto bisogno di conoscere il reale stato dei conti e degli impianti. «Serve fare chiarezza sui punti ancora oscuri della vicenda, in primis sull’ammontare effettivo dei debiti di Acciaierie d’Italia, una cifra – ha puntualizzato Gozzi – di cui non può essere chiesto il pagamento ai privati in entrata. Il secondo passaggio fondamentale è realizzare una due diligence sugli impianti.
Prima del commissariamento, si investivano 350 milioni di euro l’anno per manutenzioni straordinarie. Dal 2012 a oggi non si sono fatti investimenti, o sono stati fatti in minima parte, perché gli sforzi sono stati concentrati sull’ambientalizzazione. La sensazione è che lo stato degli impianti, up e downstream, non sia buono. Bisogna capire in che stato sono realmente i macchinari, che per scarsa manutenzione diventano più pericolosi e con qualità di prodotto più scadente.
Serve capire – ha continuato il presidente di Federacciai – anche su questo fronte quali siano le reali necessità di capitale. Il piano di rilancio dovrebbe prevedere debiti e investimenti ambientali in carico allo Stato e manutenzioni, investimenti non di decarbonizzazione, oltre al circolante, in capo ai privati. Credo che ci sia anche un dovere nazionale dei siderurgici italiani di aiutare il Paese in un momento di così grave difficoltà. Ma le cose vanno fatte con buonsenso, senza suicidarsi, non dimenticando la redditività e il ritorno economico, sia pure nel medio-lungo periodo».
Gozzi si è inoltre espresso con cautela sulle prospettive per il mercato dell’acciaio nel 2024 in un contesto di grandi incertezze geopolitiche, di recessione prolungata della Germania che impatta negativamente sull’economia europea e italiana, di nuovi problemi sulle catene globali delle forniture come evidenziato dal blocco della rotta del Mar Rosso e di un possibile nuovo aumento dell’inflazione.
Le aspettative di compensazione del calo della domanda poggiano molto sui progetti Pnrr da realizzare entro la metà del 2026. «Siamo in una fase con due guerre in corso e con il mercato tedesco, il nostro miglior mercato di sbocco, che è in recessione. Questo pesa in particolare sulle esportazioni che valgono per la metà del fatturato del comparto manifatturiero. Su cui peserà l’incremento dei noli nell’ordine del 200–250%, che influirà sull’inflazione.
Sul mercato nazionale la scomparsa del 110% sull’edilizia influenzerà anche il consumo di acciaio. Una mancanza di consumo che potrebbe essere compensata dalla messa a terra degli interventi del PNRR che dovranno concretizzarsi nel 2024, 2025 e nei primi sei mesi del 2026. Questo scenario rende difficile fare previsioni. La sola soluzione dei conflitti potrebbe però portare il sentiment all’ottimismo e rilanciare la domanda mondiale», ha concluso Gozzi.