Le fonderie italiane affrontano la sfida di costi di produzione, filiere internazionali e transizione green

Jul 1, 2022

L’Italia è la seconda industria fondiaria europea dopo la Germania, e la prima nel comparto alluminio come volumi di produzione

Di Federico Piazza

 

Il settore italiano delle fonderie ferrose e non ferrose è formato da oltre 1000 aziende, largamente concentrate nel Nord, in particolare in Lombardia e a Brescia.
I dati dell’associazione di categoria Assofond mostrano nel 2021 una buona ripresa della produzione (totale circa 2 milioni di tonnellate) per ghisa, microfusione e alluminio: per quest’ultimo, l’Italia nel 2021 ha pure riacquistato la leadership europea come volumi. Il giro d’affari complessivo è stato di circa 6,9 miliardi di euro (2,2 miliardi ferroso, 4,7 miliardi non ferroso), di cui il 69% esportato. Crescita del 26,9% sul 2020, valore tornato ai livelli del 2019.

 

Assofond fa il punto

Ma è una dinamica molto influenzata dalla spinta inflattiva delle materie prime energetiche e metalliche, che hanno eroso i margini aziendali.

Notevoli le preoccupazioni degli operatori, registrate in occasione dall’assemblea nazionale di Assofond, riunita il 24 giugno alla Dogana Veneta di Lazise.
Tant’è che si pensa anche a una possibile sospensione della produzione nella seconda metà del 2022. Un’ulteriore impennata del caro energia e materie prime renderebbe infatti insostenibile il business dell’industria fondiaria, con ricadute forti sull’intera economia, perché il blocco investirebbe a cascata molti altri settori: automotive, meccanica, edilizia, aerospaziale, produzione energetica, etc.

Il sistema sta affrontando non solo la sfida dei costi di produzione e delle strozzature delle supply chain, ma anche quella della transizione ecologica.
Così, Assofond chiede all’Italia e all’Europa di agire rapidamente. «Gli aumenti dei costi dei fattori produttivi ci costringono a rivedere i nostri listini quasi settimanalmente: per quanto potremo andare avanti prima di assistere a un crollo della domanda? Per quanto potremo restare competitivi nei confronti dei nostri concorrenti europei se non viene posto un freno alla crescita dei prezzi di materie prime ed energia?», afferma Fabio Zanardi, presidente di Assofond e presidente e amministratore delegato della veronese Zanardi Fonderie di Minerbe specializzata in ghisa sferoidale.

 

Il caro energia

Per un settore energivoro come quello delle fonderie pesano moltissimo innanzitutto i rincari di corrente elettrica e gas.
Per l’elettricità, prezzo spot sul mercato nazionale passato dai circa 60 €/MWh di gennaio 2021 agli oltre 308 di marzo 2022, e il 21 giugno 2022 nuovo record del Prezzo unico nazionale a 342,52 €/MWh.
Per il gas, quotazione TTF da circa 20 €/MWh di gennaio 2021 a 125 €/MWh di marzo 2022, e dopo il calo di aprile-maggio le recenti riduzioni di forniture dalla Russia hanno fatto risalire il prezzo (116,95 €/MWh il 17 giugno) con proiezioni al rialzo per i prossimi mesi.

«Il mercato delle commodity energetiche – evidenzia Massimo Beccarello, docente di Economia industriale all’Università Milano-Bicocca – sta subendo degli sconvolgimenti di lungo periodo: è ragionevole pensare che i prezzi resteranno molto elevati non solo nel 2023, ma anche almeno per tutto il 2024. Quanto sta succedendo negli ultimi giorni, con le criticità legate alla disponibilità di gas con il taglio di forniture dalla Russia, rischia di impattare anche sull’energia elettrica. È chiaro, a questo punto, – prosegue Beccarello – che è necessario rivedere profondamente questo mercato che, ricordiamolo, sconta a livello di prezzo un differenziale importante con Francia e, soprattutto, Germania, dove in questi mesi sono stati fatti interventi più incisivi capaci di alleggerire la pressione su consumatori e imprese».

 

Minerali e sottoprodotti

E poi c’è il fronte delle materie prime industriali. Nei primi sei mesi del 2022 la quotazione media dei rottami e delle ghise in pani (utilizzati dalle fonderie di metalli ferrosi) è stata rispettivamente dell’88% e del 128% superiore alla media del 2020.
Situazione simile per ferroleghe, materie prime ausiliarie e metalli non ferrosi: per esempio, la media dei prezzi all’LME dell’alluminio primario e di quello secondario è stata nel 2022 superiore rispettivamente del 102% e dell’88% rispetto al 2020, con un picco a marzo di 4.000 €/t per l’alluminio primario e di 3.700 €/t per quello secondario.

 

Il caso della ghisa in pani da Russia e Ucraina

Particolarmente a rischio sul fronte commodity è la situazione della ghisa in pani, un importante sotto prodotto che arrivava per il 90% da Russia e Ucraina: in Europa se ne produce in quantità marginali, e in Italia l’ultimo impianto è stato chiuso quasi vent’anni fa.

«Per ora dalla Russia di ghisa in pani ne arriva ancora, seppure meno, perché non è sanzionato il prodotto in sé ma sono sanzionati alcuni oligarchi proprietari di aziende produttrici. Ma se la crisi in corso dovesse sfociare in un progressivo o totale taglio unilaterale delle esportazioni di commodity strategiche da parte di Mosca per colpire l’economia dei Paesi occidentali, difficilmente troveremmo sufficienti forniture alternative», spiega Zanardi.

Altre fonti di approvvigionamento per la ghisa in pani sono in Sudamerica e in Sudafrica, ma c’è il problema della quantità disponibile, dei costi e della qualità, «perché quella prodotta negli altoforni ucraini e russi è di ottimo livello, anche grazie alla qualità del minerale russo impiegato».
Nelle parole di Zanardi e nelle analisi presentate durante l’assemblea pubblica Assofond si ripresenta, legato alla questione della ghisa in pani, il tema dell’ex Ilva, che potrebbe essere destinata anche a questo tipo di produzione. E più in generale si caldeggia l’esigenza di tornare a sviluppare in Europa una produzione industriale strategica di ghisa in pani di qualità, che sarebbe probabilmente più cara delle produzioni in altre parti del mondo ma assicurerebbe una riduzione delle dipendenze da aree critiche. Una questione di prospettiva economica strategica, in un contesto globale che si sta polarizzando.

 

Commodity industriali nel mercato globale: l’esigenza europea di tornare a produrre

«Il cambio di paradigma che sta caratterizzando le relazioni internazionali è evidente e non si può ignorare», osserva Gianclaudio Torlizzi, esperto di mercati delle materie prime.

«Ci avviamo verso un mondo nuovamente diviso in blocchi, che vede da un lato il mondo occidentale “trasformatore e consumatore” di materie prime, dall’altro quello dei Paesi “produttori” di materie prime e di energia, come Russia e Cina. Prima ce ne rendiamo conto, e prima possiamo mettere in atto le nostre contromisure. Ci sarà probabilmente un maggiore protezionismo da parte dei principali produttori di materie prime, e questo ci impone di cambiare la nostra visione. Le contromisure prese fino a questo momento sono state tutte concentrate sul favorire la ripresa dei consumi, ma senza interventi davvero strutturali. Bisogna ora incentivare la produzione, – continua Torlizzi – e tornare a essere non solo Paesi consumatori ma anche produttori. Anche la transizione green, pensata in un momento di ultraliberismo e di forte interconnessione fra Europa e Cina, va completamente ripensata: se l’Europa si mette in mano alla Cina garantendole il monopolio della mobilità, firma la sua condanna. La sicurezza nazionale (e quella comunitaria) prevede dinamiche diverse da quelle che potevano andare bene qualche anno fa».

 

La geopolitica

La questione geopolitica è sottolineata da Andrea Beretta Zanoni, docente di Economia aziendale all’Università degli Studi di Verona: «Il momento che stiamo vivendo potrebbe portare, in un orizzonte di tempo abbastanza breve, uno sconvolgimento all’ordine mondiale che ha contraddistinto il mondo post-1989, caratterizzato da una situazione di iper-globalizzazione ed economia aperta che garantivano stabilità politica e, con essa, crescita economica. Le spinte autarchiche e nazionalistiche che sono riemerse dopo la crisi del 2008 hanno rotto il circolo virtuoso. Il rischio, oggi, – avverte il professore – è che guerre commerciali e sanzioni economiche diventino un tratto permanente nelle relazioni globali, nell’ambito di un mondo che potrebbe in qualche modo tornare a essere bipolare».

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